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mercoledì 17 ottobre 2012

Mostar



“La strage  degli innocenti assume le forme più varie.
E’ strage di bambini, di uomini e di donne, di animali, di memorie, di monumenti. La moschea di Gazi Husrev-Beg, nella città vecchia, una delle opere più belle dell’architettura islamica in Bosnia, ora è sfregiata, lesa, riempita di schegge e frantumi, bucherellata.
E’ anche strage di sentimenti, di speranze. Ma a questo si oppone, appunto, la tenace difesa di una vita quotidiana possibile, di una possibile normalità, che tutti a Sarajevo sembrano ingaggiare.
E allora, ecco, mi sembra che noi siamo venuti non tanto a portare speranza, bensì a riceverne, poiché se questo è possibile qui, allora anche la speranza lo è veramente.
Allora è possibile pensare la pace davvero, oggi, mentre la guerra incalza, ai bordi dell’Europa dei ricchi consumi e della pace sazia, l’Europa ignava, indifferente. Allora è per questa pace, che prescinde dalle grandi diplomazie garantite dagli eserciti, che è possibile rischiare, venendo fin qui, nel centro violento del conflitto. Perché quella gente – per una volta l’abusata parola della nostra retorica politica ha un senso preciso e alto – quella gente resiste, preparerà un futuro non disumano, in cui di nuovo conteranno i gesti indispensabili, essenziali, i gesti di vita della vita quotidiana, irrinunciabili come respiri, che non si lasceranno snaturare dalla guerra.”
(Sarajevo Maybe, di Gianfranco Bettin, 1994, Feltrinelli Editore Milano, pag.134)

Sento il bisogno di scrivere, per comprendere il significato di questo viaggio,  per esprimere il più possibile quello che mi porto dentro.

Il mio viaggio è iniziato con una e-mail di Laura del Centro Pace di Venezia. Aveva invitato i volontari del servizio civile a fare un viaggio in Bosnia. Sapevo che non era a scopo turistico ed è per questo che ho scelto di andarci. Ho sempre preferito viaggiare in maniera "responsabile".
Più si avvicinavano i giorni alla mia partenza più iniziavo a farmi domande: "io in Bosnia? Mi sembra assurdo, ma cosa ci vado a fare in Bosnia? Sinceramente non mi sono mai interessata ai Balcani, io preferisco il Sud. Ma che si andrà a fare là? Non conosco bene la loro storia, non so niente del conflitto, ero troppo piccola e troppo presa nel mio mondo per sapere che esisteva la Bosnia nel 1992. bah...si vedrà".
Sono partita senza essermi informata di niente, né sul programma settimanale, né su quello che era successo in quei posti ...sapevo solo dove si trovava geograficamente e avevo solo un’unica idea ben chiara, che mi porto dentro in ogni viaggio: LORO NON SONO COSi' DIVERSI DA NOI, SIAMO FATTI DELLA STESSA CARNE E ABBIAMO GLI STESSI SENTIMENTI.
Queste erano le premesse.
Sono andata in Stazione a Mestre e là ho conosciuto i componenti del Centro Pace di Venezia, del Centro Pace di Cesena, di MilaDonnambiente di Pescara e i componenti della Fondazione Alexander Langer Stiftung. (spero di non aver dimenticato nessuno!)
Dopo una lunga nottata in pullman siamo arrivati a Mostar.
A prima vista, un grazioso paesino attorno alle colline, molto turistico, con molta gente, con un bel mercato che richiamava luoghi e colori arabi, poi appena fuori dal mercato vi trovo uno dei tanti palazzoni distrutti, senza più i piani, (figuriamoci il tetto) con ancora tutte le macerie dentro e penso: "chissà quanta vita ci doveva essere, un tempo, qua dentro". Faccio qualche passo, giro l’angolo e mi trovo una palazzina, tutt’ora abitata, con i segni di una mitragliata sul muro.
Perdendoci un po’ per il paese decidiamo di andare a vedere una piccola mostra fotografica sopra la torre, vicino al famoso ponte (una bellezza!), le foto invece rivelano anni difficili, l’altra parte di Mostar, non più arabeggiante, ma sporca e disastrata, piena di macerie, senza il ponte.
Continuando con il nostro girovagare entriamo nella moschea, l’esperienza è unica e rimango piacevolmente sorpresa quando Andrea ci fa notare che nelle vetrate colorate c’è la stella di David, segno di un senso di assimilazione ormai perduto.
Insomma, anche Mostar sa essere bella, ammaliante e veritiera nella stessa misura.
In fine, verso sera abbiamo visitato un Centro Giovanile OKC Abrašević, dove, con mia grande sorpresa abbiamo iniziato un laboratorio di teatro. Mi sono divertita molto perché abbiamo fatto un laboratorio misto, composto da italiani e bosniaci, tutti insieme. E’ servito per conoscerci, per comprendere l’altro attraverso il divertimento e il movimento.
Questa, era una attività che avevo in programma da tempo, ma per via dei soldi e del tempo non ero mai riuscita a farla.
Comunque il Centro Giovanile sembrava bello e la maggior parte dei giovani si è vista solo dopo cena, seduta ad un tavolino, con una birra in mano, a parlare e ad ascoltar musica, come tutti i giovani di questo mondo (con o senza birra).
... to be continued

sabato 8 settembre 2012

"Uccisi dai fascisti"

Il genocidio ha spazzato via la memoria. “Prima della guerra, tutti i bambini serbi sapevano cosa era il ramadan e riconoscevano le preghiere del muezzin. Prima della guerra, tutti i bambini musulmani, durante la pasqua, coloravano le uova e le scambiavano con i vicini di casa - mi racconta un ragazzo serbo impegnato nel progetto Adopt Srebrenica della Fondazione Langer - . Oggi ognuno vive per conto suo. Molti miei amici serbi mi hanno tolto la parola perché sanno che io parlo anche con i musulmani. La guerra ha scavato un fossato e nessuno sa come riempirlo”. I ragazzi di Adopt Srebrenica che incontriamo prima della partenza ci raccontano il progetto di raccolta delle testimonianze che stanno portando avanti. “Un lavoro difficile - mi spiega uno di loro - perché non sempre noi o quelli con cui lavoriamo siamo nelle condizioni emotive per portare avanti questo lavoro. I risultati però non ci mancano. Io, ad esempio, sono riuscito a recuperare una registrazione con la voce di mio padre. E’ stata una cosa incredibile perché ascoltandola, dapprima non riuscivo a mettere a fuoco, ma poi mi sono balenati in mente tanti ricordi che non sapevo neppure di avere”.
“Il nostro obiettivo è anche quello di raccogliere informazioni su come si viveva prima della guerra, quando eravamo tutti bosniaci e basta. Sono cose che sia i serbi che i musulmani vorrebbero fossero dimenticate. Ed invece dobbiamo far sapere a chi vive ora, quale è il futuro che l’odio e la guerra gli hanno rubato. Altrimenti è come se avesse vinto il genocidio”.
Lasciata la gola dove è incastrata Srebrenica, ci dirigiamo a nord, verso Tuzla, costeggiando la Drina, il fiume che separa la Bosnia dalla Serbia come un tempo separava l’impero romano d’oriente da quello d’occidente e poi la cristianità dall’impero ottomano. Le morbide pendici boschive che ci accompagnano per tutto il viaggio hanno visto la tragica marcia dei quindicimila profughi in fuga da Srebrenica che, dopo la caduta della città, hanno tentato di raggiungere Tuzla. Più di seimila di loro verranno massacrati senza pietà dall’esercito serbo e dai paramilitari.
Per tutta la strada incrociamo scuole, magazzini, palestre, sedi di cooperative che furono teatro di indicibili violenze e di massacri. Nemmeno una lapide li ricorda.
“Sindaci e amministratori, siano essi serbi o musulmani, stanno portando avanti una operazione di normalizzazione di tutti i luoghi dove furono perpetrati crimini orrendi. Ci sono scuole dove furono violentate e uccise centinaia di donne in cui oggi i bambini vanno a far lezione. Tutti sanno e tutti tacciono in una sorta di omertà collettiva. Addirittura è vietato pregare davanti a questi luoghi - spiega Andrea Rizza della Fondazione Langer -. I politici non vogliono che la gente ricordi e commemori. Ma così nessuno uscirà mai dal ruolo di vittima e di carnefice. Nessuno chiederà scusa e nessuno elaborerà il lutto, in una sorta di negazione reciproca dei tanti crimini commessi da una parte e dall’altra”.
Cancellare i luoghi della memoria significa cancellare la memoria. Significa impedire a ciascuno di raccontare la sua storia e di confrontarsi con la storia dell’altro. Ogni comunità si trincea dietro il suo dolore, senza riconoscere quello dell’altro. E’ la logica di un incontro che non avverrà mai: perché io dovrei riconoscere il tuo grande crimine se tu non riconosci il mio piccolo?
Un esempio di questa negazione la troviamo a Kravica, a poco più di mezz’ora d’auto dal memoriale di Potoći. Qui nel gennaio del ’93 i musulmani uccisero 47 militari serbi e 9 civili. Per la verità, ci furono crimini ancora più pesanti compiuti dai bosniàcchi, ma si preferisce non ricordarli dando invece spazio a questo eccidio più piccolo nei numeri perché il luogo si trova a poca distanza da Srebrenica, come per “pareggiare i conti” con i musulmani. E’ significativo che nella grande chiesa che ricorda i morti di Kravica non siano indicati i nomi né il numero dei caduti. Il confronto con gli oltre 8 mila assassinati che riposano nel memoriale di Potoći sarebbe assolutamente sproporzionato a favore dei musulmani. In altri casi simili, i monumenti ai caduti serbi fanno conto unico con i caduti nella seconda guerra mondiale, tanto per “fare numero” e dimostrare che anche tantissimi serbi sono state vittime della violenza. In questa assurda generalizzazione si butta la memoria nel tritacarne e si impedisce agli stessi parenti delle vittime serbe di pregare su una tomba monumentale che riporta il nome del proprio caro scomparso.
Nessuno accetta un confronto che parta dal presupposto che la questione non è chi ha massacrato di più e chi ha massacrato di meno.
Eppure, negli eccidi, è stato dimostrato che la motivazione non fu mai la vendetta. Nessuna comunità scampata ad un massacro ha poi perpetuato una strage nel campo avverso. Il genocidio fu pianificato e studiato a tavolino nelle alte sfere del potere da una destra nazionalista e xenofoba. L’unico memoriale che ribadisce chiaro questo concetto lo troviamo a Tuzla. Quella Tuzla antifascista che si difese nel sangue dall’occupazione nazista, e che quando gli ustascia chiesero di consegnare loro gli ebrei risposero che là c’erano solo cittadini di Tuzla. Proprio nel cuore di questa città una lapide ricorda i 71 ragazzi uccisi da un colpo di mortaio mentre festeggiavano la tradizionale giornata della gioventù. Sulla lapide non c’è scritto che gli assassini erano serbi o bosniàcchi, ortodossi o musulmani. C’è scritto solo: “uccisi dai fascisti”.

giovedì 6 settembre 2012

Quando i caschi blu ti mandano al macello...

Hasan Nuhanović non è poi così diverso da come appare in quel video, girato una quindicina di anni fa, che proiettano al memoriale di Potoći. Il filmato scorre sui volti terrorizzati di donne e bambini in fuga dal paese caduto in mano ai serbi. Scene di guerra, rastrellamenti, cadaveri abbandonati per strada. Con lo sguardo basso, cercando a fatica di mantenere un tono neutro, Hasan prova a raccontare i giorni del genocidio. La caduta di Srebrenica, l’arrivo di migliaia di profughi alla base dei caschi blu in cerca di una protezione promessa ma mai concessa. Quel giorno Hasan, che era uno dei tre traduttori di supporto al contingente olandese, vide la madre, il padre, il fratello uscire dal campo per essere consegnarti ai macellai serbi. Non li rivide più.
Otto anni fa Hasan Nuhanović ha iniziato una causa al tribunale olandese accusando il contingente olandese di essere complice nell’omicidio dei suoi genitori. Il secondo grado di giudizio gli ha dato ragione ma l’esercito olandese è ricorso al terzo grado, quello paragonabile alla nostra Cassazione. Tra un paio di anni, tempi forensi, avremo il giudizio definitivo. Nessuna speranza di ottenere pene detentiva ma un cospicuo risarcimento che Hasan devolverà ad una fondazione per aiutare i parenti delle vittime della strage di Srebrenica a intraprendere la medesima strada legale.
Abbiamo incontrato Hasan Nuhanović questa mattina, al centro giovani di Srebrenica. Le tre ore di domande, di risposte e di discussione ci sono sembrate poche rispetto alla nostra voglia e alla nostra difficoltà di capire.

mercoledì 5 settembre 2012

Odio!

Srebrenica è un claustrofobico catino stretto da una tenaglia di monti. Cammini tra le case mitragliate, guardi in alto, ringrazi dio per quei due metri di cielo che ti regalano un po’ di respiro. Ma il resto è solo angoscia. Non solo per quelle montagne incombenti che sembrano volerti soffocare. Ogni muro urla sangue, violenza, disperazione, odio, vendetta. Ti viene da pensare che i fantasmi esistono. Gli incubi qui sono reali.
La gente del posto ti sorride timidamente quando ti incrocia per la strada. Saluta con quelle due parole di inglese che conosce. Ma tu non puoi guardare nessuno negli occhi senza provare ad immaginare quello che ha passato.
Arrivati in paese siamo stati subito “adottati” da alcune famiglie che ci hanno masso a disposizione qualche stanza delle loro case. Gli alberghi sono ancora in macerie.

martedì 4 settembre 2012

Le bandiere di Srebrenica

Ad un invito di un “traditore” del calibro di Jovan Divjak non si può dire di no. Così la mattina, prima di lasciare Sarajevo per Srebrenica, facciamo un salto alle sede della sua associazione Obrazovanje gradi BiH, dove il generale ci attende per un caffè e un ultimo saluto. Obrazovanje gradi BiH significa più o meno: l’educazione costruisce la Bosnia Erzegovina. Divjak ha fondato questa associazione dopo la fine dell’assedio per fare qualcosa che nessun esercito potrebbe mai fare: aiutare gli orfani di guerra. Per collaborare all’associazione o per altre informazioni potete visitare il sito di Obrazovanje gradi BiH. L’incontro ci dà comunque l’occasione per scambiare qualche altra opinione con un personaggio come Jovan Divjak e con alcuni cooperanti dell’associazione. Molti di loro sono studenti all’università bosniaca e ci confermano quanto ci aveva già detto il generale, e cioè che le due parti in cui gli accordi di Dayton hanno diviso la città si ignorano (se non peggio) l’una con l’altra. Nemmeno una linea di tram comune sono riusciti a realizzare. “Io studio all’università di Sarajevo est - mi spiega un ragazzo -. Ho chiesto a tutti i miei compagni di corso: nessuno di loro ha mai visitato la parte storica di Sarajevo che sta dall’altra parte! E parliamo di poche centinaia di metri di distanza! Qualcuno si arrabbia pure se gli chiedo il perché”. Non c’è un muro ma è come se ci fosse. Ripenso a quanto scriveva Langer sulle politiche etnocentriche che non possono che alimentare culture etnocentriche che sfociano sempre in comportamenti xenofobi sino a gettare benzina sulle fiamme dei conflitti.
Salutato Jovan Divjak, saliamo sul nostro pullman per inerpicarci nel cuore verde e montagnoso della Bosnia, sino a Srebrenica.

Traditori ed eroi


Se gli chiedi se oggi, sedici anni dopo la fine dell’assedio, possa camminare liberamente per Istočno Sarajevo, Jovan Diviak guarda per terra e scuote la testa. Quindi ti ricorda che per i serbi lui è ancora un traditore. Anzi, lui è il traditore per eccellenza: è il generale serbo che ha scelto di difendere Sarajevo dall’esercito serbo. Lo hanno accusato di crimini contro l’umanità. Qualche anno fa, in occasione di un suo viaggio a Vienna sono pure riusciti a farlo arrestare, sia pure per poco tempo. Ma se il tribunale europeo lo ha assolto con formula piena, quello di Belgrado lo ha condannato in via definitiva. Il governo serbo, anche dopo la caduta di Milosevic, non gli ha mai perdonato di essersi schierato dalla parte dei civili e di non aver mai abbracciato la causa nazionalista. “Non posso dire che la mia sia stata una scelta difficile - racconta -. Schierarmi a difesa della città dove sono nato e della sua gente che è la mia gente, siano essi bosniacchi, serbi, croati o che altro, è stata per me una scelta naturale. Certo, sono serbo, non potrei e non vorrei neppure negarlo, ma sono anche e soprattutto un bosniaco, oltre che un generale delle forze armate della repubblica di Bosnia ed Erzegovina che ha giurato di difendere a qualunque costo il popolo. Mi hanno chiamato traditore. E io rispondo che sono nato ‘traditore’ dal ventre di mia madre, serba di Bosnia”.

lunedì 3 settembre 2012

Sarajevo

“Cominciò tutto con una legge che fu fatta passare come una conquista democratica. Adesso, col senno di poi, sono sempre più convinto che sia stata una operazione predeterminata e portata avanti con uno scopo ben preciso. Perché è stata proprio la legge che ha abolito l’articolo 143 che istituiva il reato di opinione ad aprire la strada alla guerra. Prima se qualcuno istigava all’odio razziale finiva in galera. Dopo, grazie a questa ‘conquista democratica’ ciascuno poteva insultare chiunque. All’inizio si cominciò nell’indicare nelle altre etnie la causa di tutti i mali che affliggevano la Jugoslavia. E tutti stettero zitti, perché le opinioni sono sacre e vano tutte rispettate in una democrazia. Poi si continuò col dire che ‘bisognerebbe ammazzarli tutti’.