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mercoledì 5 settembre 2012

Odio!

Srebrenica è un claustrofobico catino stretto da una tenaglia di monti. Cammini tra le case mitragliate, guardi in alto, ringrazi dio per quei due metri di cielo che ti regalano un po’ di respiro. Ma il resto è solo angoscia. Non solo per quelle montagne incombenti che sembrano volerti soffocare. Ogni muro urla sangue, violenza, disperazione, odio, vendetta. Ti viene da pensare che i fantasmi esistono. Gli incubi qui sono reali.
La gente del posto ti sorride timidamente quando ti incrocia per la strada. Saluta con quelle due parole di inglese che conosce. Ma tu non puoi guardare nessuno negli occhi senza provare ad immaginare quello che ha passato.
Arrivati in paese siamo stati subito “adottati” da alcune famiglie che ci hanno masso a disposizione qualche stanza delle loro case. Gli alberghi sono ancora in macerie.

Con Luigi sono alloggiato da una gentilissima signora di una certa età. E’ musulmana e vive da sola in una grande casa. Tutte cose che non sono un buon segno, a queste latitudini. Ci ha messo a disposizione tutto il piano alto della casa. Purtroppo, ci fa capire, non c’è acqua corrente. Fa il gesto con le mani: sono 4 mesi che non piove. Pazienza per il lavarsi ma un problema sarà lo scarico del water. Nel gabinetto ci sono tre o quattro bottiglioni ancora pieni da gettare sulla tazza. Intanto usiamo quelli. Poi si vedrà. La mattina ci aspetta per la colazione. Abbiamo provato a spiegarle che noi, in Italia, beviamo solo una tazza di caffè con qualche biscotto al massimo. Ma non c’è verso di non farci trovare una tavola imbandita con tanta di quella roba che non la salterebbe un cavallo. Alla fine arrivano pure due fette di “baklava”, sorta di torta al miele. Ultra sostanziosa a dire poco. Buttiamo giù tutto e scappiamo via prima che porti la zuppa che sta facendo bollire. Vogliamo scendere a Potoči per una doverosa visita al cimitero e al museo del genocidio. Sarà una di quelle giornate in cui metti gli occhiali scuri anche se il cielo è coperto perché non ti va che ti vedano piangere. Prima però bisogna passare dalla polizia a lasciare giù un documento per una registrazione assolutamente inutile. E’ solo un modo come un altro per romperti le scatole e provare a dissuaderti dal ficcanasare. La verità è che alle autorità della Republika Srpska non piace per niente l’idea che qualcuno vada a mettere le mani dentro il loro sacco della biancheria lercia. Il trattato di Dayton infatti ha assegnato Srebrenica - la Srebrenica dove i serbi hanno massacrato distrutto e violentato migliaia di bosniàcchi - proprio alla Republika Srpska. E non solo. Una delle conseguenze della pulizia etnica è stata che questa regione da forte maggioranza musulmana è diventata a maggioranza serba. Il prossimo sindaco di Srebrenica - le elezione sono previste a breve termine - potrebbe essere un proprio serbo.
Anche davanti alla sede della polizia, quella che sventola non è la bandiera stellata della Bosnia Erzegovina, ma il tricolore serbo. Dopo qualche vivace battibecco con lo sbirro che ci apostrofa in un modo tutt’altro che amichevole (e sai quanto ce ne fotte, a noi), combiniamo di lasciare là i nostri passaporti per venirli a ritirare domani, dopo la “registrazione”. E va bene così. Senza documenti in tasca partiamo per Potoči. Un mare di lapidi bianche che si inerpica per la collina. All’inizio del cimitero una lapide ricorda il numero delle vittime, per la maggior parte donne, bambini, anziani e malati, ammazzate in quei terrificanti otto giorni di follia: 8372. Ne mancano all’appello perlomeno altri mille trecento, forse mille e cinque. Prudentemente, chi ha realizzato il memorial ha lasciato un bel po’ di spazio attorno per i prossimi seppellimenti. Ma non è facile trovare i corpi. Tre mesi dopo i massacri, gli stessi criminali di guerra che hanno compiuto l’eccidio hanno riaperto le fosse per smembrare in corpi con trattori e scavatrici meccaniche e seminare i resti rimescolati in fosse più piccole. Uno schifoso quanto inutile tentativo di nascondere uno dei peggiori crimini contro l’umanità compiuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Dopo il cimitero, affrontiamo la visita del memoriale realizzato sulle strutture dove sorgeva la caserma del contingente olandese che avrebbe dovuto proteggere la gente di Srebrenica ed invece l’ha consegnata ai serbi.
Un pugno nello stomaco fa meno male.

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